“Avevo studiato tanto e lavoravo come donna delle pulizie negli hotel e nelle case, come cameriera e badante. Essendo istruita, nel tempo mi venivano assegnati compiti di organizzazione e gestione, ma la mia passione era il settore sanitario e non riuscivo ad accedervi. Mi chiedo: tutti gli immigrati parlano due lingue e in più conoscono l’inglese, per quanti italiani si può dire lo stesso?.” Arrivata dalla Romania nel 1994 a ventidue anni, Anna oggi segue il corso di laurea magistrale in Sviluppo educazione e benessere.
Tra ricongiungimenti familiari e fratture professionali “Il motivo del viaggio era ricongiungermi con mio marito. Da quel momento ho visto la mia vita regredire sia a livello professionale che economico. Il mio titolo di Tecnico Farmaceutico non era riconosciuto in Italia. Ero nessuno e intorno a me il vuoto istituzionale.” Arriva poi la gravidanza e Anna ha solo “il mio istinto materno e qualche rivista. Le telefonate internazionali costavano e non avevo donne di riferimento che potessero darmi consigli.”
Ripartire da zero E’ Ankica Kosic, ricercatrice della Sapienza, a guidare le testimonianza delle allieve straniere del suo laboratorio di Psicologia Sociale. Lascia che queste portino la loro storia ai colleghi italiani durante il convegno Migrazioni: lo scenario attuale tenutosi presso la Sapienza sabato 25 maggio. Per sciogliere il ghiaccio racconta se stessa e la sua partenza dalla ex Jugoslavia del 1992, ”sono scappata dalla guerra. Tramite contatti, per caso trovai lavoro come badante in Italia, ero felice di venire qui, il film Vacanze Romane era un’ottima presentazione.” Anche Ankica, però, è dovuta ripartire da zero, i problemi relativi al riconoscimento dei titoli di studio hanno interrotto il suo cammino per un po’. Lentamente e non fermando la sua ricerca di soluzioni alternative riesce ad inserirsi nel settore dell’assistenza sanitaria e a iscriversi al dottorato di ricerca.
L’università luogo dove rimettere in piedi i propri obiettivi Diverso il caso di Patricia che a undici anni raggiunge i genitori in Italia. “Mio padre iniziato il fenomeno dei desaparecidos temeva per mia sorella, più grande di me. Arrivata a Tivoli la lingua fu un problema e il mio nome era bersaglio di scherno o veniva modificato perché gli italiani non riuscivano a pronunciarlo.” Oggi Patricia, una donna adulta che si rimette in gioco sui banchi universitari, ha un figlio ormai adulto che è emigrato in Danimarca, “ce l’abbiamo nel DNA l’emigrazione“ dice ridendo. Maria Fernanda invece è arrivata dal Perù per vivere con la madre e il suo compagno italiano, ma c’era un problema: era troppo piccola per studiare. “Da noi le scuole finiscono a sedici anni, ero troppo piccola, così sono ritornata in Perù ho frequentato l’università e raggiunta l’età necessaria sono rientrata in Italia per stare con mia madre e poter allo stesso tempo studiare”.
Il progetto migratorio spinge alla partenza e non va dimenticato nell’affrontare le difficoltà nel nuovo paese. “Questa è l’emigrazione, questo è vivere da stranieri in un altro paese. Il nostro elghorba -l’esilio- è quello di qualcuno che arriva sempre in ritardo: arriviamo qui, non sappiamo nulla, dobbiamo scoprire tutto, imparare tutto – per coloro che non vogliono restare così come sono arrivati – siamo in ritardo sugli altri, sui francesi, restiamo sempre indietro. Più avanti, quando l’emigrato ritorna al suo villaggio, si rende conto che non ha nulla, che ha perduto il suo tempo. Tutta l’emigrazione, tutti gli emigrati, tutti quanti sono, sono così: l’emigrato è l’uomo con due luoghi, con due paesi. Deve metterci un tanto qui e un tanto là. Se non fa così è come se non avesse fatto nulla, non è nulla” scriveva A. Sayad sociologo algerino emigrato in Francia autore dell’importante studio raccolto ne La doppia assenza.
M. Daniela Basile(28 maggio 2013)
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