Un bambino per metà ebreo e per metà rom si trova davanti ad una bellissima bicicletta incustodita, nuova fiammante. A quel punto è pervaso da un dubbio amletico: “vendere o rubare?”. Anche l’ironia può essere un modo per contrastare il diffuso pregiudizio che accompagna i due popoli, accumunati secondo Moni Ovadia – almeno fino alla seconda guerra mondiale – in un destino parallelo fatto di continue fughe dalle persecuzioni. Al teatro Vittoria lo spettacolo è “Senza confini. Ebrei e zingari”, degna conclusione di una giornata dedicata al progetto “Romaidentity – il mio nome è rom” patrocinato dalla Commissione Europea per combattere gli stereotipi e le discriminazioni contro le comunità rom.
Dal medioevo infatti ebrei e rom sono sempre stati visti come “l’altro” nell’occidente cristiano, con un forte sentimento di astio accompagnato da azioni oppressive. Ma proprio l’apice dell’odio, lo sterminio nazista, è stato lo spartiacque storico che ha visto queste strade tortuose separarsi. Gli ebrei hanno avuto il loro stato – pur con tutte le controversie di cui non si vede ancora una fine – e si sono “seduti al tavolo dei vincitori”. Dall’altra parte non ci sono stati né risarcimenti né riconoscimenti, a partire dall’identità e dall’idioma che, nel nostro paese, non è inserito nel novero delle minoranze linguistiche per l’assenza di una concentrazione territoriale.
E dire che 100 anni fa la stessa situazione dei rom era vissuta dai nostri migranti nel Nuovo Mondo. Una relazione dell’ispettorato per l’immigrazione parla degli italiani nel 1912 come di gente “non amante dell’acqua, che puzza perchè tiene gli stessi vestiti per settimane, dedita al furto, violenta, evitata dalle donne locali per la voce di stupri consumati”, di bambini “utilizzati per chiedere l’elemosina”. Insomma, bisognava separare i lavoratori da quelli che cercavano l’ingresso negli Stati Uniti “per vivere di espedienti”. La lettura del testo integrale senza sapere di chi si sta parlando dà proprio l’impressione che l’argomento in questione siano gli “zingari”, per una sovrapposizione anche morfologica: “di piccola statura e di pelle scura” che – a tempo perso – andrebbe mostrata ai sostenitori del purismo della razza (quale?).
Ma la serata non è stata solo un inno alla tolleranza e alla fratellanza fra popoli, con tono serioso ed ingessato da progetti Comunitari. Anzi, il contesto di partenza era più un contorno per celebrare quello che forse è il più grande talento dimostrato dai rom e che ha influenzato tutta l’Europa: no, non è il taccheggio, ma la musica. Si potrebbe dire che i monologhi di Ovadia siano stati intervallati dall’esibizione del Gipsy Quartet – Ion Stanescu al violino, Albert Mihai alla fisarmonica, Marian Serban al cymbalon e Isak Tanasache al contrabbasso – in realtà sono stati i momenti di riflessione ad intervallare i numerosi virtuosismi artistici dei musicisti. Del resto “se non suoni così, ai matrimoni rom ti sparano”, confessa Albert Mihai.
Che colpa ne ho se il cuore è uno zingaro e va? Il brano di Nicola Di Bari, per Moni Ovadia – almeno in questa frase – è lo specchio di un’invidia recondita che l’occidentale avrebbe sempre provato per coloro i quali un tempo erano nomadi (in Italia ora lo sono solo per il 3%): una vita senza confini e barriere che una volta è stata sognata da tutti. Magari non progettata, ma il pensiero di partire senza meta è una sorta di rifugio mentale. E l’aspetto culturale di libertà non poteva non influenzarne la musica.
Che a sua volta ha avuto ascendente in diverse zone. Dalle fisarmoniche del liscio della riviera adriatica – del resto Casadei è “rom-agnolo”, scherza con le parole Moni Ovadia – a molti canti popolari russi che in realtà sono figli del retaggio rom “ma giustamente considerati della tradizione russa” perché di russi si trattava. Fino alla straordinaria carriera di Django Reinhardt, jazzista belga di stanza a Parigi proveniente da una famiglia sinti, la cui discendenza gitana ha contaminato lo stile arrivando a consacrarlo come geniale ed innovativo, forse il migliore europeo nel suo genere.
Chiusura alcolica Senza arrivare all’apologia dell’alcolismo una menzione speciale per il gran finale è stata dedicata alla sostanza inebriante che più di tante altre cose accumuna i popoli, dagli slavi – e fin qui nessuna grande sorpresa – agli ebrei. A dispetto di una fama stereotipata di osservanti rigidi, il carnevale ebraico è caratterizzato da una dissacrazione anche per ruoli totem come i rabbini ortodossi, cui in quel giorno è consentito fare di tutto. L’obiettivo è arrivare alla non distinzione fra bene e male, così che “anche se a pezzi e con la faccia sul tavolo, se ti chiedono chi è il buono fra Mosè e Hitler e rispondi Mosè non hai bevuto abbastanza”. Del resto, polvere siamo e polvere torneremo, “ma fra una polvere e l’altra una sbornia non può fare male”.
Gabriele Santoro(12 novembre 2013)
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